Ieri sera sono uscita dalla sala cinematografica trepidante, avevo voglia di scrivere e discutere del nuovo film di Quentin Tarantino. Avevo sentito e letto tante opinioni al riguardo, ma per un amante del cinema puro questo film verrà inserito negli annali della buona cinematografia.
C’era una volta a Hollywood appare come una narrazione centellinata in cui diversi personaggi si muovono. I protagonisti principali sono Cliff Booth (Pitt) controfigura di Rick Dalton (Di Caprio), un attore conosciuto per aver girato dei film western ma mai decollato definitivamente nell’industria cinematografica.
Rick cerca in tutti i modi di affermarsi nel mondo del cinema, ma sembra quasi disdegnare l’idea perché considera gli spaghetti western un livello marginale di produzione. Tarantino, invece, fa muovere i suoi personaggi principali all’interno del set western perché intende compiere un tributo verso un modo di fare cinema ormai scomparso.
Non è una novità che il regista sia molto innamorato dei film di Leone e traspare benissimo. La grande protagonista della vicenda lunga quasi tre ore è la narrazione storica. Il primo riferimento storico inserito nel film è legato all’avvento del nazismo e alla sua contro-narrazione. Tarantino vuole far emergere la possibilità di regalare giustizia ad alcuni avvenimenti storici che hanno scosso l’anima dell’umanità. In una scena, Dalton servendosi di un lanciafiamme, spazza via ogni desiderio del nazismo di violare l’altro. E’ stata una scena importante poiché ritengo che solo il cinema può rendere vera una narrazione diversa dalla realtà.
Il caso Manson
Parallelamente alla vita dei due attori, emergono i movimenti hippie della famiglia di Manson. Rick Dalton va a vivere a Hollywood vicino alla villa dei Polanski. Il regista ha inserito la vicenda di cronaca nera, maturata nel ’69, in cui la famiglia e Charles Manson hanno compiuto le atrocità ai danni di Sharon Tate. Tate è interpretata da Margot Robbie che ha svolto un lavoro molto interessante, soprattutto nell’interpretare una donna che ha conosciuto un destino così atroce. Sembrava vitale, a tratti fiabesca. L’intento di Tarantino non era di rievocare le immagini che hanno scosso i media americani degli anni sessanta, neppure portare a galla nuovamente quella vicenda. Manson, infatti, appare in pochissimi fotogrammi. Il regista intendeva più creare una storia secondaria in cui permetteva al cinema di salvare Sharon e di proteggerla all’interno di un’altra narrazione.
C’era una volta a Hollywoood ribalta completamente gli avvenimenti storici, li rende sterili e propone un’altra visione storica. Mi sono commossa negli ultimi trenta minuti del film; Booth affronterà la famiglia di Manson e nei fotogrammi finali, Dalton si troverà a festeggiare nella villa di Polanski con una Sharon ancora viva e che non ha mai vissuto quelle atrocità. Quell’ultima parte della storia è apparsa come un tentativo di protezione.
Il mio pensiero è che bisogna conoscere un po’ di cinema per apprezzare questo film, considerando che il lungometraggio prosegue a spezzoni spesso scollegati tra loro. Alcune persone sembrano non aver afferrato tutto ciò che il regista ha voluto trasmettere. Innanzitutto, è presente un tributo d’amore personale di Tarantino nei confronti del cinema più disparato. L’amore per il western, la presenza di Steve McQueen, Bruce Lee al seguito, Al Pacino seppur marginale. Poi la volontà di raccontare la possibilità di creare un’arte diversa dalla realtà. Di sognare. Non riesco a trovare alcun difetto, mi sono piaciuti tanto anche gli attori. Pitt è stato straordinario e ha saputo dare una forma particolare al suo personaggio, nettamente superiore ad altre interpretazioni che lo hanno coinvolto.